L’odio e la ragione o dell’ingrato status dell’artista in Italia – articolo tratto da Lavoroediritto.it

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Odio e Ragione sono due parole che poco, ad una prima analisi, parrebbero avere in comune fra loro; infatti l’odio è un sentimento mentre la ragione, intesa come possesso di equilibrio, può definirsi una virtù; eppure queste due parole in qualche modo sono destinate a confrontarsi poiché il sussistere dell’una diviene negazione dell’altra, e il subentrare dell’odio significa, quasi sempre, conclamata perdita della ragione e viceversa.

La presente introduzione serve, nel caso specifico degli artisti, a spiegare, o almeno provare a rendere una spiegazione plausibile, con parvenza di logica, ad una situazione assurda nella quale proprio la mancanza di ragione da parte di alcuni, causata da molteplici interessi, non tutti cristallini, ha creato e sponsorizzato, in questi ultimi anni, un odio generalizzato verso l’artista, nell’intento di renderlo poco credibile e stimabile. E tutto ciò avviene sia sul piano strettamente professionale che su quello formativo. Infine un vero massacro culturale che ha distrutto e sta distruggendo intere generazioni che potevano esercitare validamente il “mestiere di artista” e che invece si sono ritrovate, dopo anni d’inutili studi, con l’amaro in bocca, per una professione mancata.

Di contro ad ingrassarsi su quello che possiamo definire “affare arte” ci hanno pensato tutti quelli che con l’arte non hanno mai avuto nulla da spartire, non la conoscono, non la vivono, non la frequentano; insomma non sono artisti! Ma costoro, purtroppo, possiedono l’impareggiabile capacità, fiutato l’affare, di appropriarsi, attraverso complicità politiche e quant’altro, del variegato mondo artistico, e non certo per promuoverlo ma per usarlo a propria discrezione e interesse.

Ma perché sono potuti avvenire fatti del genere?

E perché si è lasciata la libertà a determinati personaggi di agire indisturbati, anzi si è consentito loro che, dopo aver creato il danno, e forse proprio a scusante di esso, s’adoperassero anche ad ingenerare l’odio?

Infine, perché lo Stato che doveva intervenire a giusta tutela, invece di farlo, ha preferito accontentarsi delle spiegazioni rese dai diretti interessati, che sarebbe come … “chiedere all’amante di qualcuno notizie affidabili sulla di lui moglie”?

Meritava davvero, il mondo dell’arte, una simile politica?

E qualcuno ha fatto lo sforzo di riflettere su quanto sia fragile questo mondo che, come ci insegna la storia, per esprimersi al meglio, ha bisogno di un’illuminata protezione, accompagnata magari da affettuoso consenso.

La risposta a questa situazione paradossale non è difficile poiché non è più un pettegolezzo il fatto che, in Italia, proprio per inveterata mancanza di ragione e di raziocinio, a divenire preminenti su tutto sono quasi sempre gli interessi ingiustificabili di pochi; un sistema questo che, senza metafore, può anche essere definito “cancro del sistema”: e il cancro, è risaputo, quasi sempre uccide.

Il danno, poi, diviene enorme se pensiamo che oltre ad essere distrutti gli artisti, ad essere distrutta sarà l’immagine del nostro Paese, già storicamente definito “dell’Arte”.

Ma, descritta la situazione, sarebbe ora opportuno procedere anche alla disamina della medesima e di come essa sia divenuta, nel tempo, possibile: semplicemente usando quella che potrebbe definirsi una manovra a tenaglia utile ad incidere su quei due piani, all’interno dei quali agiscono gli artisti: il piano formativo (Accademie e Conservatori di musica) e il piano professionale, legato alla produzione (Fondazioni teatrali e grandi Associazioni concertistiche).

Detto questo, è bene iniziare il discorso partendo dalla formazione.

Chi possiede buona memoria dovrebbe rammentare che gli anni settanta dello scorso secolo furono caratterizzati, rispetto alla formazione di ogni tipo e grado, da un’azione politica disgregante tesa allo sconvolgimento e appunto alla politicizzazione della scuola medesima. E ciò avvenne per determinate e precise volontà di un partito teso e interessato alla gestione della cultura, e la connivenza di un altro grande partito, che invece era teso e interessato alla gestione delle banche, e che per questo dismise … la cultura.

Forti di questo accordo politico trasversale tutto il sistema scolastico italiano, che fin lì aveva ottimamente funzionato, fu stravolto mediante l’inserimento, non proprio produttivo, di presenze esterne alla scuola. Dette presenze esterne dovevano, a detta del legislatore, instaurare una fattiva collaborazione con i docenti, integrandoli nella gestione della scuola.

Nei fatti, invece, l’integrazione doveva servire ad effettuare un controllo diretto della scuola per scardinare, mediante interventi inappropriati sulla didattica, l’autorevolezza dei docenti medesimi.

Lo strumento di legge che, nel 74, rese possibile questo piano fu costituito da alcuni “decreti delegati”, un pacchetto normativo che, a posteriori, possiamo affermare abbia prodotto quei disastri di analfabetismo e di bullismo che ancor ‘oggi stiamo pagando.

In quegli anni, infatti, il pensiero dominante, e diremmo anche interessato, del legislatore era quello di “liberare la scuola”, da una gestione troppo legata alla figura del docente. Le famiglie in questo processo innovativo erano, dunque, investite ad effettuare una partecipazione, sia pure indiretta, sul delicato problema afferente alla didattica. Infine i genitori venivano investiti del potere di discutere metodi educativi e intrinseche conoscenze professionali.

Purtroppo, come prevedibile, l’unica liberazione che i decreti produssero fu una liberazione della scuola dai…. “saperi”. Ossia si produsse ciò che il livello politico voleva: un abbassamento qualitativo della scuola per consentire, un domani, la facile gestione del poco acculturato cittadino italiano. Non a caso la nascita dell’Università nel Medio Evo fu dettata dall’aspirazione e dall’esigenza del popolo di poter, attraverso la cultura, rivendicare la libertà e con essa quei diritti umani, sin lì poco riconosciuti, alle classi meno abbienti. Cultura, quindi, quale strumento di emancipazione.

Da questo assunto è facile dedurre che si voleva, invece, programmare in Italia, con puntuale disegno e per fini politici, un impoverimento e arretramento generale dei “saperi”. Infatti furono quelli gli anni che videro l’idiozia del “sei politico”, l’idiozia della “cacciata del latino” e quant’altro; un disordine generale nel quale, con o senza deliberata volontà, finirono col trovarsi travolti, complici i grandi sindacati, anche Accademie e Conservatori di musica. E’ facile arguire che queste Istituzioni, per la loro delicata funzione, furono quelle ch’erano state destinate, almeno negli intenti, a subire i maggiori danni allorché, surrettiziamente, si fossero applicati, anche a loro, i famigerati e secondarizzanti decreti delegati.

La reazione non fu immediata ma qualcosa iniziò a muoversi. Fu allora che per raggiungere, con certezza, il fine ultimo secondarizzante e destabilizzante, avendo mostrato i Conservatori poca volontà di addomesticamento politico, fu posta in essere, attraverso il Parlamento, un apposito disegno di legge ai fini di, “tout-court”, stabilire, in via normativa, la licealizzazione del settore musicale, sin lì mantenuta al più alto livello.

La secondarizzazione era utile, tra le altre cose, a lasciare campo libero agli interessi delle Facoltà universitarie di tipo umanistico, da sempre interessate ad appropriarsi dell’Arte o meglio della possibilità di dare loro, pur senza capire un acca di Arte, lauree in discipline artistiche.

Così mentre tutto il mondo invidiava le nostre Istituzioni e promuoveva riforme finalizzate alla promozione degli studi artistici sul nostro modello, in Italia, la follia e la degenerazione politica umiliava le storiche Istituzioni, relegandole sempre più in leggi e leggine afferenti la secondaria.

La logica ribellione, a simile scriteriato piano, da parte degli artisti che operavano in Accademie e Conservatori, non si fece attendere e da sotterranea divenne evidente, non mancando di esplodere (vedi il movimento della “pantera” iniziato nell’Accademia).

Il personale di queste Istituzioni, allora, per ottenere una qualche tutela si appellò ai sindacati tradizionali. Ma, visti vani gli sforzi, risultando la triplice sindacale, in totale accordo con il piano di secondarizzazione, si tentò, attraverso la fondazione di un sindacato, non compromesso politicamente, di costituire una barriera.

Con il supporto, già sul nascere, di uno stuolo di avvocati, la costituenda Unione degli Artisti-UNAMS iniziò la sua battaglia e dimostrò subito di saper agire puntando i propri argomenti, oseremmo dire a difesa, su uno specifico articolo della Costituzione, l’art. 33, in forza del quale neppure il Parlamento aveva aggio e potere per dichiarare secondario ciò che invece la Costituzione aveva già definito “Istituzioni di Alta Cultura” di pari livello con le Università.

E fu su questa base costituzionale che divenne possibile l’annullamento, da parte di vari tribunali amministrativi, di tutti quei provvedimenti che risultavano in contrasto appunto con l’articolo costituzionale e che, salvo eccezioni, venivano puntualmente emessi da funzionari, pronti, rimettendoci la faccia, ad avallare le istanze dei potenti di turno, sindacati compresi, ancora e sempre contrari alle Istituzioni dell’Arte.

La logica dei grandi numeri infatti ha sempre imperato sulle volontà dei sindacati e, anche volendo, essi non potevano sottrarsi alle spinte che provenivano dai grandi numeri della scuola: circa un milione di addetti contro le poche migliaia di artisti di Accademie e Conservatori; aggiungasi che il personale della scuola, in massima parte, intravedeva negli artisti dei privilegiati, se non degli incolti da combattere. E i sindacati, sempre attenti alla logica dei numeri, o meglio del numero delle deleghe sindacali, fece ben presto le sue scelte.

Fu allora che, per arginare la china distruttiva instauratasi contro le Istituzioni dell’arte, l’UNAMS, costrinse (questa purtroppo è la parola esatta) vari parlamentari, senza tener conto delle appartenenze politiche, a prendere iniziative che potessero finalmente porre un punto fermo, almeno così si sperava, attraverso l’approvazione di una riforma del settore, che però partisse dal dettato costituzionale (art. 33). Nel ’99, dopo anni di controversie e aspre contrapposizioni, finalmente il Parlamento, con voto unanime, approvava la Legge 508 ma, all’interno di essa esisteva una “pecca”: durante la discussione della legge, per volontà dell’allora Ministro Berlinguer che non la digeriva affatto, furono inserite delle deleghe al Governo per la stesura di una serie di regolamenti attuativi. Infine per molte sue parti la legge di riforma fu mutata in “legge delega”.

In un Paese normale, anche in virtù del fatto che molti paesi europei s’erano già dotati di una buona legge per la formazione artistica, con o senza regolamenti per delega, approvata la legge, in pochi mesi, si sarebbe dovuta applicare. Ma, appunto, in un paese normale; l’Italia, invece è il Paese ove a vincere è sempre l’interesse illegittimo di pochi contro il giusto interesse, non solo degli addetti all’arte, ma addirittura di una nazione. Pertanto, come forse era negli auspici di Berlinguer, chi non voleva la legge prima ebbe modo di boicottarla dopo, servendosi proprio della delega per la formulazione dei famosi decreti attuativi.

E siccome il potere ha sempre armi imperscrutabili, chi doveva difendere la legge, per fare probabilmente un favore a qualcuno, si è speso a massacrarla, confidando nel fatto che tanto gli artisti… di leggi, decreti e leggine, finché non ci sbattono il proprio naso, ci capiscono ben poco.

Sull’argomento, a nulla neppure sono valse le varie pronunce dei Tribunali, anzi la logica aberrante che si è voluta far prevalere consisterebbe nel fatto che il processo di riforma non sarebbe bloccato, per evidente responsabilità da chi sforna regolamenti astrusi e punitivi per la categoria, oltre che illegittimi, bensì per “colpa” del sindacato che, per onestà verso i colleghi, si oppone ai regolamenti medesimi.

Se non ci fosse da piangere, questo capolavoro dell’assurdo sarebbe da manuale.

Ovviamente la forza di un simile procedere consiste nel fatto che il potere politico poco controlla, e gli artisti, ormai stufi, non ne vogliono più sapere e, volontariamente, anche se non possiamo condividerne l’idea, cercano il burrone ove sprofondare, tanto … peggio di così!

Basta guardarsi intorno e la follia che ci appare è totale. Infatti solo in Italia poteva avvenire che, dopo dieci anni dall’approvazione di una Riforma, fatta per risolvere proprio il problema dei titoli al più alto livello, allineandosi così con gli altri Paesi avanzati, ebbene, per un coacervo d’interessi: sindacali, politici, amministrativi e delle Università, questo riconoscimento dei titoli ancora non è stato fatto. Pertanto l’Italia, nel confronto con l’Europa, manderà allo sbaraglio i nostri studenti i quali, pur essendo preparati e bravissimi, non possiedono ancora un titolo spendibile e di pari livello, con quelli già in possesso dei loro colleghi europei.

Il danno è grande ma diviene crudele e insostenibile quando al danno s’aggiunge la beffa; infatti la risposta che viene data all’opinione pubblica tutte le volte che qualcuno chiede conto di questa brutta situazione e dello stallo intervenuto, è semplice anche se poco inerente: la colpa di tutto, chissà perché, sarebbe dei docenti in quanto poco idonei.

A quel punto qualcuno potrebbe e dovrebbe anche chiedersi: ma perché da tutto il mondo si viene a studiare in Italia, forse per godere delle nostre strutture spesso obsolete o per guardare le mura del Ministero?

Se non si sfiorasse il ridicolo ci sarebbe ancora da rispondere: se i docenti non sono idonei, cosa sono invece i funzionari che, in dieci anni, non “accocchiano” (mettono insieme) quattro regolamenti giuridicamente esatti, o per lo meno passabili. E’ così difficile stilare regolamenti attuativi che non siano castranti ma semplicemente in linea con gli intendimenti, tra l’altro molto chiari della legge di riforma, quella che appunto dovrebbero attuare?

Possiamo rispondere noi all’interrogativo: i funzionari sono tutt’altro che poco abili e se una cosa non la fanno è perché giudicano più utile non farla. Infatti non mettere in ordinamento un titolo potrebbe significare, ad esempio, un’imperitura riconoscenza da parte, non solo delle Università, che da sempre vogliono rilasciare loro il titolo, ma anche da parte di tutti quelli che ancora non hanno smesso di volere la secondarizzazione del settore.

E i sindacati? Come già nel ’74 stanno a guardare.

Su questo atteggiamento passivo di certi sindacati poi ci sarebbe molto da dire ma un vecchio detto recita: “non v’è miseria senza difetto”. Ergo la mancata tutela che operano è giustificata dal fatto che la categoria degli artisti, infastidita da norme e leggine, spesso non vede la trave che gli pende sul capo e preferisce, piuttosto che dare man forte sui temi fondamentali e sui provvedimenti che, prima o poi, se non bloccati, potrebbero danneggiarli irrimediabilmente, preferisce ottenere un favoruccio immediato e spicciolo. E quello è possibile solo se ci si affida ai sindacati che, nei fatti, si guardano bene dall’ ostacolare l’Amministrazione appunto sui grandi temi, quei temi che, per intenderci, come travi, oggi, appunto pendono sul capo dei professori di Accademie e Conservatori.

Uno dei temi, ad esempio, ancora poco compreso è stata la battaglia intrapresa dall’UNAMS, suffragata dalle pronunce dei magistrati, per evitare ai docenti la perdita “sic et sempliciter” della propria classe di concorso; ossia un qualcosa che andrebbe a rendere precari anche gli attuali professori di ruolo. Purtroppo, e non sappiamo con quanta buona fede i docenti hanno preferito prestare fiducia a quanti intendevano ingannarli. A volte, al docente, infatti può tornare più comodo credere al potere che nega….senza riflettere che il citato potere mai potrebbe essere tanto idiota dal dire : si è vero, sarebbe nei miei intenti destabilizzarvi!

Ovviamente quando il danno diverrà irreversibile a qualcuno scatterà anche la bella idea di chiedere: ma perché i sindacati non ci hanno difeso?

La risposta dell’UNAMS, allora, sarà altrettanto lapidaria: “e tu cosa hai fatto per difenderti se per piccole comodità o per far piacere a qualcuno, ti sei affidato alla tutela proprio di chi si dichiarava soddisfatto di simili intendimenti?”

Preferiamo non andare oltre ma il quadro fatto potrebbe riassumere di come è possibile, e con il concorso di molti, mandare, come direbbero i veneziani a remengo” sia i Conservatori che le Accademie.

Passando invece alla professione artistica propriamente detta, e in questo caso musicale, le cose, se possibile, riescono anche a peggiorare. Infatti, basta scorrere i programmi di una qualsiasi Fondazione o Associazione concertistica, di medio o grande livello per vedere che, nei cartelloni vi sono rappresentati artisti di tutti i Paesi del mondo, Katanga (oggi Shaba) compreso, tranne che gli italiani.

E qui le cose sono due, o nel Paese della musica è sopravvenuta un’epidemia di gravità tale che ha spazzato via tutti i musicisti …..oppure qualcuno ha interessi precisi a ingaggiare solo stranieri, spesso mediocri ma di certo dotati di particolare generosità.

Dalla situazione instauratasi discende una considerazione: in tutto il mondo, l’Italia è il solo Paese che usa scriteriatamente il denaro dei suoi cittadini per promuovere e fornire lavoro alle altrui genti; gente che, a loro volta, risulta già protetta nel Paese d’origine da specifiche e mirate leggi di tutela.

Infine anche in questo caso al danno s’aggiunge la beffa e l’artista italiano, tranne pochissime eccezioni, oltre a non avere lavoro in patria non l’ottiene neppure all’estero, poiché giustamente ogni Stato, riserva il lavoro esistente ai propri cittadini.

E in tutto questo i Governi, in qui succedutisi, che hanno fatto?

In genere un beato niente, anzi con una certa politica, già definita dello struzzo, hanno ignorato le informazioni che gli sono state coraggiosamente fornite. Poi, quando diveniva impossibile non rispondere, il politico di turno andava a chiedere lumi proprio ai responsabili del disastro i quali, avendolo creato, avevano tutto l’interesse per mistificare la realtà.

Questa mistificazione si condensava nella più infame delle calunnie: gli artisti italiani non sono idonei. E quelli che sino al giorno prima erano stati definiti i più dotati del mondo, per bocca di questi soloni, e forse per improvvisa condanna divina, divengono dei “minus habens”.

Ma tanto grande è la capacità di convinzione che hanno costoro che quella che, appunto, era solo una spregevole calunnia si è andata sempre più trasformando in un pericolosissimo “sentire comune”, poiché la maggior parte dei cittadini, non frequentando direttamente il mondo dell’arte, non sempre può avere modo e maniera di formarsi un’idea precisa e diretta; ammesso che, in mezzo a tanti guai, i cittadini lo vogliano persino fare.

Senza tema di sfiorare la retorica, affermiamo che questo è davvero il sistema più perverso che si possa instaurare.

Alla calunnia, hanno fatto seguito, ma nemmeno sempre, le giuste reazioni degli interessati. E allora in chi dovrebbe quantomeno rispondere di malgoverno insorge invece l’odio poiché, l’unico diritto riconosciuto all’artista italiano è quello di subire, e di farlo pure in silenzio.

Questa, come ovvio è una pretesa assurda, poiché volutamente ignora che, almeno sulla carta, l’artista è anch’egli un cittadino di questo Stato, e per questo un soggetto portatore di diritti e doveri, compreso appunto quello di lavorare in patria, diritto, tra l’altro, tutelato dalla nostra Costituzione.

Aggiungasi che tutto questo avviene nel momento esatto nel quale i mass-media favoriscono, di contro, il nascere pilotato, del culto di alcuni artisti, culto che, ben presto, si rivela per ciò che in realtà è, uno strumento improprio capace solo di far perdere, al pubblico, la sua capacità di critica. Un modo come un altro per gestire il fenomeno del momento e guadagnare notevoli quantità di denaro. Infatti i soggetti propinateci spesso non sono i migliori, sono soltanto quelli che una campagna mediatica ben organizzata ha saputo indicarci per tali.

Per questo motivo mentre s’inneggia, anzi s’inneggiava, a Pavarotti, o oggi a Muti, di contro, molti cantanti e direttori d’orchestra, altrettanto bravi, se non più, vengono emarginati e offesi, senza che l’Italia dia loro una qualsivoglia occasione per emergere.

Eppure, il bello di questo triste panorama consiste nel fatto che, almeno, a parole tutti dicono d’amare l’arte. Ad esempio sul campo delle arti visive si fanno file di ore per accedere alla mostra dell’ultima ora. E di certo ciò rappresenta un bene, solo che le fila si fanno solo per gli artisti del passato. E ai giovani di oggi, quali opportunità si offrono per consentire file di estimatori futuri?

Infine, come diceva un vecchio detto, l’arte è come “la signorina Consiglia tutti la vogliono e nessuno la piglia”. Infatti non c’è uomo politico o di governo che, a parlargli d’arte, non si dica favorevole verso gli artisti italiani e, sempre a parole, non esprima ammirazione per chi opera simile scelta di vita, anzi in ultimo dichiara d’essere pronto e disponibile a spendersi a favore di una giusta promozione artistica per il rilancio degli artisti.

Poi, nei fatti, non si comprende quali dovrebbero essere i destinatari delle dichiarate attenzioni, e i rilanci promessi a chi li destinano.

La realtà invece ci racconta di come lo Stato italiano investa soli pochi spiccioli per i suoi artisti, e nemmeno approvi leggi di protezione per il lavoro di costoro, anzi l’unica promozione che fa…..è rivolta agli artisti stranieri, spesso tanto mediocri che a definirli artisti si rischia di deprimere la parola.

Questa dunque la politica ingrata italiana che avviene forse per interessi mirati ai quali si aggiunge l’incuria di un mondo politico che non sa cosa farsene dell’Arte.

O forse tutto ciò avviene quando, più semplicemente, alla ragione si sostituisce l’odio, un odio che non avendo logiche giustificazioni diviene, proprio per questo, sempre più profondo e incontrollabile.

Gli inglesi usano cantare nel loro inno nazionale: Dio salvi la regina!

Per noi italiani, invece, sarebbe giusto cantare, ammesso che ci resti almeno la voce: Dio salvi l’Arte.

Prof.ssa Dora Liguori

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